Il volontario, con tono equidistante tra la pazienza e l’esasperazione, tipico di chi ha a che fare coi matti o con bambini molto piccoli e rompiscatole, “signoooora….. di chi è la biciclettina?”
Dopo lunghe e penose spiegazioni sulla planimetria dell’edificio e sul perché nella MIA anticamera ci abitasse la bicicletta di un NON MIO figlio (mentre il braccio si staccava lentamente dalla spalla frantumata), finalmente si persuasero a portarmi in ospedale.
Appresi solo in seguito, da una volontaria seria, che sarebbero stati da denunciare, perché:
- non mi misero il collare
- non mi misero sulla tavola spinale
- mi fecero camminare
e per un paio di altri gravi motivi che adesso non ricordo.
Io invece li avrei denunciati perché:
- guidarono a tutta birra sul pavé del corso, sparpagliandomi frammenti di clavicola in ogni dove.
In ogni caso alla fine arrivammo al pronto soccorso, non quello dell’ospedale ortopedico ma quello dell’ospedale normale, perché la prima cosa di cui prendersi cura era la testa zampillante.
Dopo avermi ben visitata la medichessa di turno stabilì infatti che dovevo passare la notte in osservazione, e così mi misero seduta in uno stanzone pieno di drogati, ubriachi e vittime di incidenti stradali, ad osservarmi da me.
Negli ospedali prendono molto sul serio la meditazione e l’introspezione, a quanto pare.
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